«Nacqui d’inverno, al nostro discontento. Fui cupo e spinoso, poi come un buon cactus produssi dei fiori, cibandoli delle mie polpe. I miei libri, quei fiori; il mio stile di vita, le spine (…)».
L’infanzia in “una famiglia così poco famiglia”
Michele Mari nasce a Milano nel 1955 all’interno di una famiglia rigida e poco affettuosa, definita da lui stesso «una famiglia così poco famiglia». Suo padre Enzo è un artista, un celebre designer, sua madre Iela è autrice di libri illustrati per bambini.
È fondamentale soffermarsi ad analizzare quelle che sono le sue radici, poiché è proprio fra le mura di casa, durante l’infanzia, che inizia a plasmarsi la forma mentis di un autore che al giorno d’oggi può essere considerato “un vero maestro (seppure schivo e ombroso) delle lettere contemporanee”. A tal proposito dichiara Mari in un’intervista rilasciata per «Il Foglio»:
Avvertivo un senso di superiorità perché ragionavo come mio padre: noi Mari siamo nel nostro castello, arroccati, torvi, soli, perché mio padre curava anche l’idea che l’uomo di genio fosse misantropo, scorbutico, e in più avevo la convinzione […] che il buonumore fosse segno di scarsa intelligenza. Se sei intelligente devi essere triste: questa cosa […] apparteneva ad entrambi i miei genitori, per cui io l’ho fatta mia totalmente.
Costretto a crescere in un contesto famigliare poco avvolgente, il Mari bambino sviluppa un rapporto morboso con le cose, circondandosi di soldatini, macchinine, biglie, figurine; stabilisce con tali oggetti un rapporto feticistico, quasi a voler chiedere loro il calore che non riesce ad ottenere dai rapporti umani, compreso il rapporto con i genitori, strozzato e raggelato. Questo valore aggiunto attribuito agli oggetti, insieme all’atto del conservarli, diventerà una costante dell’immaginario narrativo di Michele Mari.
Tornando a un’analisi della sfera privata del nostro oggetto di interesse, si aggiunge che, intrattenendo egli delle relazioni disastrate anche con i suoi coetanei, «non si poteva frequentare nessuno che non fosse Einstein» afferma nell’intervista già citata precedentemente, incomincia a cercare un mondo alternativo in cui rifugiarsi, mondo che trova situato nella magia della lettura e che ben presto esploderà in un bisogno fisiologico di dedicarsi alla scrittura.
La nascita di Michele Mari Scrittore
In un’intervista rilasciata in occasione del «Premio Letteraria» tenutosi a Fano dal 9 all’11 ottobre 2015, è Mari stesso a raccontare agli studenti in che modo sia diventato scrittore; durante l’infanzia leggere era la sua principale attività oltre la scuola, tutte le storie che venivano assimilate nel giovane autore non si depositavano come materiale inerte, al contrario continuavano a vivere, a muoversi, fino a suscitare una sorta di chiacchiericcio mentale, un continuo parlottio. Di notte nella fase dell’addormentamento questo parlottio integrava le storie lette dal giovane Mari durante la giornata proseguendole, ampliandole.
Io mi impossessavo dei personaggi che avevo letto e li facevo miei, li incrociavo con personaggi di altri libri, contaminavo e creavo delle geografie plausibili, delle vicende a volte molto semplici a volte molto complesse in cui amavo entrare; io entravo fra gli altri personaggi e in questo modo diventavo personaggio a mia volta e non ero soggetto della narrazione ma oggetto. […] e quindi scrivere poi è stato un atto dovuto, un atto fisiologico. È stato continuazione di questo parlottio, il trasferimento sulla pagina di questo parlottio.
A proposito di scrittura, spesso viene chiesto al nostro autore se scrivere sia terapeutico, se sia salvifico, quasi come si trattasse di un surrogato della pratica psicanalitica; la risposta è sempre la medesima: per Mari la scrittura non è terapeutica se non per quel che riguarda l’aspetto performativo, e chiarisce:
Se si intende con terapeutico che possa migliorare il nostro io, raddrizzare alcune storture, lenire alcune ferite, assolutamente no, anzi, io ho sempre avuto la sensazione che in realtà scrivere perfezioni le proprie ossessioni, per via stilistica prima che topica e tematica.
Per la letteratura Michele Mari ha una forma di attaccamento «quasi religioso, soprattutto alla letteratura alta che è considerata quasi impraticabile». Afferma di essere sempre stato un foscoliano e di non aver mai condiviso empaticamente l’idea di Alessandro Manzoni di scrivere in un italiano per tutti, diffondere il romanzo come genere alla portata di tutti. Al contrario si trova d’accordo con la posizione di Giorgio Manganelli, il quale sostiene che il vero scrittore debba scrivere in una lingua di “morti” per far vedere loro che c’è qualcuno, secoli dopo, che è ancora alla loro altezza.
È questo che muove un autore classicista come Mari, scrivere per essere approvato dai grandi del passato, piuttosto che dal lettore di oggi. Ed è in questo aspetto, come in molti altri, che emerge chiaramente la sua condizione elettiva di giapponese nell’atollo a cui nessuno ha detto che la guerra è finita: associare alla letteratura una serie di valori totalmente démodé. Questa immagine amaramente ironica del soldato giapponese che, nello spazio ristretto di un atollo, continua a combattere una guerra ormai persa, è utilizzata a più riprese dallo scrittore, in diverse interviste ma anche in Cento poesie d’amore a Ladyhawke, Einaudi (2007).
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